Antonio Verlicchi “Papaloni”
La passione per la bicicletta ad Alfonsine parte da lontano. “Papaloni” in sella La storia di un uomo che “l’a e’ bigat d’la bicicletta in t’la testa” di Ilario Rasini. Nel 1920 Antonio Verlicchi detto “Papaloni”, che in “Gentes” di gennaio abbiamo conosciuto per un singolare episodio nei panni di un garzone tredicenne presso una famiglia contadina di Taglio Corelli, viene chiamato alla leva militare ed inserito, grazie alla sua prestanza fisica, nel corpo dei bersaglieri. Ad ognuno di loro a quel tempo veniva data in dotazione una bicicletta, naturalmente con le gomme piene per evitare forature. Nasce così la sua passione per la pratica ciclistica. Il comandante del corpo dei bersaglieri, viste le qualità di “Papaloni”, lo inserisce nella squadra ciclistica dell’esercito, la “Velo Sport Reno – 69° Legione Fossalta di Bologna”. Terminato il servizio militare, intraprende con successo la carriera di ciclista dilettante, gareggiando nella squadra alfonsinese costruita da Cremonino Samaritani, padre di Agide divenuto poi senatore della Repubblica e parlamentare europeo a Strasburgo. Successivamente viene costituita l’Unione ciclistica alfonsinese con la quale “Papaloni” vince la Coppa Lamone – Senio con arrivo a Faenza. La bicicletta, si sa, è un simbolo della Romagna, una terra che giustamente è stata paragonata ad una piccola Cina che pedala senza sosta e si infiamma per le gesta ciclistiche dei propri campioni. Alfonsine non ha dato i natali a ciclisti famosi, a differenza di altre località vicine: pensiamo a Michele Gordini di Cotignola, a Vito Ortelli ed Aldo Ronconi di Faenza, a Giuseppe Minardi di Solarolo, a Luciano Pezzi di Russi, al mitico campione del mondo Ercole Baldini di Villanova di Forlì, a Giancarlo Ferretti di S.Bernardino ( Lugo)*. Per non parlare in epoca moderna di Davide Cassani (Solarolo) e Marco Pantani (Cesenatico). Eppure, il periodo eroico del nostro ciclismo, dal primo dopoguerra agli anni ’50, coinvolge in questo sport popolare molti alfonsinesi a livello dilettantistico ed amatoriale. Sono stati due scrittori romagnoli tra la fine dell’800 e l’inizio del 900 a dare spessore culturale all’uso della bicicletta, che allora ha ancora un connotato di classe, costa molto e quindi rappresenta un fenomeno elitario, quasi uno “status symbol”. Ci riferiamo ad Alfredo Oriani che nel 1897 al termine di un viaggio in bicicletta durato due settimane, dall’Appennino faentino alla Toscana, scrive “Sul pedale” (in “La bicicletta” prima edizione Zanichelli 1902) ed Olindo Guerrini che nel 1903 scrive in dialetto romagnolo “E’ viazz”. E’ però soltanto nel primo dopoguerra che si diffonde l’uso della bicicletta come mezzo di locomozione, innanzitutto per andare al lavoro: si pensi ai braccianti nelle “larghe” ravennati, quelle lunghe fila di biciclette rovesciate in verticale, mirabilmente trasportate sulla tela dal pittore Ruffini, con gli ombrelli aperti a protezione delle ruote, per non trovarle sgonfie dopo una giornata di duro lavoro. E poi il ciclismo agonistico praticato in condizioni avverse, con mezzi pesanti, su strade ghiaiate ed impervie; gareggiare presuppone forza fisica e morale e chi vince diventa subito un mito agli occhi del popolo. “Papaloni”, in virtù degli eccellenti risultati ottenuti, è ingaggiato da una delle migliori squadre dilettantistiche italiane “Il Pedale Carpigiano”. Presidente di questa società sportiva è una persona veramente speciale, vicina ai bisogni della gente: quel don Zeno che costruirà anche “L’Opera dei Piccoli Apostoli” dedita all’accoglienza dei tanti bambini divenuti orfani a causa della guerra. I fascisti fanno di tutto per intralciare gli atleti (“Papaloni” ha partecipato alla fondazione della locale sezione comunista) e le società sportive che non aderiscono al regime. Ed infatti “Il Pedale Carpigiano” nel 1927 viene sciolto dal regime fascista. Negli anni ’30, poi, la passione della bicicletta forzatamente lascia spazio ad altro: “Papaloni” è costretto per trovare lavoro ad imbarcarsi a Napoli sul piroscafo Cesare Battisti che arriva a Massaua in Somalia il 23 dicembre 1936. Appena cominciate le operazioni di sbarco si verifica un’esplosione nel locale caldaie con conseguente incendio. Per la falla apertasi nello scafo, la nave si adagia sul fondo del porto.
Nell’incidente muoiono molte persone: “Papaloni” si salva e può raggiungere l’Etiopia, dove comincia a lavorare alla costruzione di strade. Purtroppo, nonostante la forte fibra, si ammala di ameba, un’infezione tropicale intestinale che gli provoca un’ulcera, vero e proprio tormento per il resto della sua vita. Ma la passione per la bicicletta ritorna: dopo il passaggio del fronte, quando il Comitato di Liberazione di Alfonsine organizza la pesca delle anguille per sfamare la popolazione, “Papaloni” assieme ad altri improvvisati fiocinini percorre lunghe distanze in bici fino alle valli di Comacchio; quando, scegliendo di contribuire alla ricostruzione della locale Cooperativa Braccianti distrutta dal regime fascista, torna al lavoro dei campi e come tutti raggiunge il posto di lavoro in sella ad una bicicletta; quando, infine, riesce a trasmettere ad uno dei suoi figli quella vera e propria “malattia”, che qualcuno scherzosamente ha identificato così: “l’a e’ bigat d’la bicicletta in t’la testa”.
* Decio Testi “Dal ciclismo eroico ai nostri giorni” Michele Gordini “Un ciclista ed il suo tempo” Dino Pieri “Uomini in bicicletta” Ivan Neri “Artigiani e biciclette in Romagna nel 900”
La profezia di Oriani (1897) “Il piacere della bicicletta… è quello stesso della libertà, forse meglio di una liberazione. Andarsene ovunque, ad ogni momento, arrestandosi alla prima velleità di un capriccio… Domani la carrozzella automobile ci permetterà viaggi più rapidi e più lunghi, ma non saremo più né così liberi né così soli”. (da A. Oriani “La bicicletta”- Longo Editore – 2002).